la gente non legge?.1.

Riflessioni su lettura e  non-lettura

La frase ricorrente a proposito del rapporto che intercorre tra pubblico e  libri  è  “la gente non legge”: abusata al punto da divenire luogo comune per definire l’indifferenza del pubblico verso i temi culturali. Si parla, in effetti,  di “gente” senza chiedersi chi siano gli individui che entrano a comporre questa collettività, quali sono le motivazioni che dovrebbero spingerli alla lettura, e perché – e/o per chi – sia così importante che la “gente” legga. Ma ecco che, scomponendone i semplici elementi, l’affermazione acquista complessità, rivelando l’esistenza di problematiche varie, le risposte alle quali non risiedono soltanto in una relazione di tipo culturale tra l’oggetto-libro e il soggetto-lettore ma si spingono in ambiti diversi, di cui quello economico non è il meno importante.

 

La relazione tra libro e lettore – in origine stabilita sulla base di un bisogno di conoscenza e di circolazione della cultura – è divenuta sempre più complessa negli ultimi due secoli, rispecchiando al proprio interno l’evoluzione delle strutture economiche e sociali del mondo occidentale che si reggono oggi sul consumo di massa. Dietro l’affermazione “la gente non legge” – che sembrerebbe esprimere in prima istanza un rincrescimento per il  disinteresse delle masse nei confronti del sapere –  si nasconde dunque un secondo livello di interpretazione, che potrebbe essere: “la gente non consuma abbastanza prodotti librari” .

 

La preoccupazione per la mancanza di interesse alla lettura ha, probabilmente, una doppia origine: da un lato le nuove teorie politico/sociali che, a partire dal XVIII secolo, hanno individuato nell’educazione dei ceti popolari l’unica possibilità di riscatto e di democratizzazione della vita civile, e l’aumento esponenziale della scolarità negli ultimi due secoli, dall’altro la nascita di una industria editoriale che si è appoggiata alle crescente alfabetizzazione di quei ceti  per spingere verso una maggiore produzione e consumo di libri, dando ragione alla ipotesi formulata da MacKenzie in Bibliography and the Sociology of Text, per cui «Nuovi lettori producono nuovi testi, e i loro significati sono funzione delle loro nuove forme».

 

La categoria del “lettore” nasce dunque nello spazio economico-sociale aperto da queste due diverse istanze.Virginia Woolf scrive nel 1931 in Lettera a un giovane poeta: «Per la prima volta nella storia, i lettori esistono – una vasta categoria di persone, che siano in affari, che curino i loro nonni, facciano pacchetti dietro un bancone, tutti leggono, ormai; e vogliono che gli si spieghi come e cosa leggere…» A questo “lettore in attesa” di avventure, di colpi di scena, di emozioni si rivolge la nascente industria editoriale, che ai suoi inizi trova proprio nella letteratura un fertile terreno.

 

3. Nel 1937 Arnoldo Mondadori dichiarava che «se gli editori lavorano bene, gli operai lavorano bene, e gli autori sono buoni, la responsabilità della crisi editoriale è del lettore». Cinquant’anni dopo (nel 1983), all’opposto, Spinazzola  afferma: «Fa effetto però constatare che sopravvive la stessa riluttanza invincibile ad ammettere che, se la gente non legge o legge poco o comunque non sceglie le letture migliori, ciò implicherà pure qualche difetto nell’attività delle persone che scrivono, criticano e commentano, editano e distribuiscono prodotti librari tali da scoraggiare il pubblico invece di incontrarne i bisogni e le attese», mentre H. M. Enzensberger sembra voler tagliare la testa ad ogni possibile velleità pedagogica nei confronti del lettore, dichiarando che in fondo la letteratura non è necessaria all’esistenza, e pertanto tutti hanno il diritto di ignorarla.  Cosa prendono in conto, e cosa escludono dal proprio campo queste tre posizioni così differenti, espresse  in epoche fra loro molto diverse? Se un imprenditore, qual è Arnoldo Mondadori, mette sotto accusa il “lettore” o meglio il mancato lettore, mi sembra che esprima un disagio di ordine economico-mercantile più che culturale (la necessità di vendere il proprio prodotto) e in questo caso la frase “la gente non legge” dovrebbe interpretarsi come «il rapporto numerico necessario fra la popolazione dei produttori e la popolazione dei consumatori globali di libri»; quando è un critico, quale Spinazzola, ad esprimere lo stesso disagio, allora il problema diventa culturale: il produttore intellettuale si interroga su qualcosa che viene percepito come proprio limite, incapacità di stabilire una “comunicazione” estesa fra scrittore e pubblico; il punto di vista dello scrittore  Henzensberger è quello della libertà di scegliere,  e dunque di una difesa di sé, che il cosiddetto lettore può mettere in atto di fronte ad un fenomeno – la lettura – che, da passione o piacere può trasformarsi in strumento di coercizione, se non in ultima raffinata affermazione del linguaggio della  società  dei consumi (non  a caso Armando Petrucci, nel suo saggio Leggere per leggere,  fa notare che gli allarmi più forti sulla crisi del libro provengono proprio dai paesi in cui  è maggiore la pubblicazione e la circolazione di testi: laddove, cioè, il libro è diventato a sua volta un prodotto soggetto alle leggi del mercato). Ma questa “crisi del libro” – cioè dell’oggetto – si identifica forse con una crisi del sapere (nel senso che si sa di meno rispetto a prima)? E questo ipotetico lettore, o meglio non-lettore, oggetto del desiderio da parte di editori e autori,   responsabile delle loro periodiche crisi, questo soggetto di diritti/ doveri nei confronti della pratica della lettura è egli consapevole di trovarsi al centro di tanti turbamenti, o il problema della propria non lettura gli scivola accanto senza neppure sfiorarlo?


 
la gente non legge?.1.ultima modifica: 2007-12-04T14:41:46+01:00da bibliosaura
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