Mia nonna e le erbe di Trotula

la terra di mia nonna

la terra di mia nonna

 

Dall’infanzia mi porto dietro una passione per le erbe. Avendo vissuto per alcuni anni– pochi paragonati al cumulo di tutti gli altri, ma tanti in rapporto al tempo dilatato che occupano nella mia memoria – avendo vissuto, dicevo, in un piccolo angolo del mondo perso nell’Appennino campano, ho trascorso un’infanzia che oggi posso definire, con cognizione di causa, medievale.

Lo scorrere del tempo a questo serve, a farci comprendere meglio i tempi della nostra vita. La lettura di alcuni libri mi ha permesso di dare una lettura di questa sensazione, di concettualizzarla. La vita nelle comunità rurali in Europa è rimasta più o meno la stessa fino all’irrompere della modernità, che è arrivata lenta, affermandosi davvero solo nel dopoguerra. E ancora credo che negli anni ‘60 la vita nel paese di mia nonna fosse rimasta più o memo la stessa del secolo precedente. Gli attrezzi da lavoro, l’organizzazione della fatica, le abitazioni, il tempo libero, la sapienza pratica non avevano subito cambiamenti nel tempo lungo, o forse solo alcune minime, in anni relativamente recenti: l’acqua corrente, l’elettricità, l’automobile.

Il centro della vita domestica era il focolare, intorno a cui si snodavano le attività del nutrimento e della produzione. Ma era la terra, col suo ciclo delle semine, delle piantagioni e dei raccolti, la trasformazione delle materie prime in prodotti da conservare per garantirsi il cibo per l’inverno ad assorbire gli sforzi e la vita di tutti.  Accanto a questa struttura pesante c’erano delle attività collaterali, quasi di riposo: la cerca delle erbe tra queste.

Di quel tempo “antico” che ho avuto la fortuna di vivere mi restano il ricordo di un’infanzia selvatica e la passione per le erbe erranti. Le chiamo così perché non hanno bisogno di essere piantate: si diffondono da sole, si spostano col vento, crescono dappertutto, rendono verde il mondo che ci circonda, sono buone come cibo e come cura.

Mi piaceva seguire mia nonna e mia zia nelle lunghe giornate in campagna, vagare nella terra mentre loro erano intente al lavoro, guardarle chinarsi a raccogliere ora questo ora quello. Da grande, per diverso tempo raccogliere erbe ha costituito la mia evasione personale, la mia fuga dal tran-tran e dai doveri della vita. Poi ho scoperto che questa attività aveva una sua valenza terapeutica rispetto alle idiosincrasie e alle insofferenze quotidiane. Mettersi davanti un pezzo di terra, un prato, e percorrerlo con gli occhi e con i piedi alla ricerca di questa e quell’erba, e nello stesso tempo fermarsi a riconoscere e salutare le altre piccole erbe, erbette e fiorellini e arbusti che compongono ogni piccola zolla di terra, porta ad una sorta di sperdimento positivo. L’immensamente piccolo è un mondo che vive, respira e si rigenera anche senza la presenza umana. Questo essere una cosa tra le cose dona una sensazione di pace, così come il rendersi consapevoli della possibilità di nutrirsi e curarsi anche in maniera diversa dal canone riconosciuto e accettato.

Le due donne che si chinavano a raccogliere erbe e radici, che si arrampicavano sugli alberi a prendere i frutti, che sarchiavano l’erba intorno alle loro preziose piantine sono state per me un po’ come due umili guide al regno vegetale, quello più vicino all’uomo e alla natura primordiale. A loro devo questa passione.

Poi ho incontrato il libro di Trotula.

Tra l’XI e il XII secolo a Salerno le donne esercitavano la pratica della medicina nell’ambito della famosa Scuola Medica Salernitana. Sembra che costituissero una specie di corporazione, detta delle Mulieres Salernitanae. Esercitavano chiaramente un tipo di medicina diversa da quella dei medici maschi: Le mulieres si occupavano del corpo femminile, dei suoi problemi e dei suoi mali, perché a quel tempo le donne non potevano essere visitate da medici di sesso maschile: uno dei pochi tabù della società longobarda, che lasciava ampio spazio alle donne (le quali potevano anche combattere, ma questa è un’altra storia). La pratica di queste medichesse non è perfettamente documentata, ma è diverse volte citata nei trattati di medicina coevi. Trotula de Ruggiero è la più famosa tra loro. Lo è grazie a un famosissimo trattato, il De Mulierium Passionibus ante in et post partum, conosciuto in italiano col titolo Delle Malattie delle Donne[1].  Questo libro di cure mediche, insieme ad altri pochi elementi (si parla di una Dame Trot nei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer) costituisce la base di una ipotesi molto suggestiva, ma mai veramente documentata, sulla sua intensa attività di medichessa. Le poche certezze su cui gli storici concordano è che appartenesse alla importante famiglia dei de Ruggiero, legati a Roberto il Guiscardo. Trotula visse dunque negli anni di Sighelgaita, Roberto il Guiscardo, del papa Gregorio VII. Fu moglie di Giovanni Plateario e madre di Giovanni Junior e Matteo: una famiglia di medici nell’epoca della famosa Scuola Medica Salernitana. Ma torniamo al suo libro. Mi ci sono avvicinata con la reverenza dovuta a una tale opera, che ha attraversato i secoli per giungere fino a qui, e  su cui moltissimo è stato scritto: il primo vero trattato di medicina, che dimostra una grande conoscenza del corpo femminile e delle sue funzioni, la data di nascita dell’ostetricia e ginecologia moderne. E davvero la vita biologica femminile  – mestruazioni, parto, malattie dell’apparato ginecologico, ma anche problemi estetici  – è  analizzata e definita nella sua interezza e complessità. Chiaramente le cure proposte sono tutte di origine vegetale (e, in minima parte, minerale). La terra forniva tutto quanto era necessario per preparare pozioni, decotti, impiastri, etc. La farmacopea di Trotula elenca oltre duecento erbe che, combinate le une con le altre, offrivano rimedi ai mali femminili.  Ma non si tratta di erbe o piante rare coltivate in condizioni particolari o provenienti da paesi esotici, tranne qualcuna, usata in medicamenti dedicati alle donne ricche: la maggior parte di esse crescevano, e crescono ancora oggi, nelle nostre zone rurali, sulle colline che circondano le nostre città, qualcuna addirittura riesce a perforare il cemento e l’asfalto e sopravvive lungo i marciapiedi, accanto ai muretti, ovunque vi sia un po’ terra, segnalando un confine incerto tra tempo presente e tempo passato.  Dall’abrotano alla zucca, le erbe usate da Trotula continuano a vivere intorno a noi, sconosciute principesse di una conoscenza un tempo alla portata di tutti, che la modernità ha cancellato. Erbe dai nomi suggestivi, calaminta, nepitella, artemisia, aristolochia, catapuzia, euforbio, sangue di dragone, corno di cervo, coloquinta, elleboro, oggi utilizzate dalla farmacopea erboristica, e acquistate a prezzi esorbitanti in negozi loro dedicati. Fa un certo effetto pensare che ci sia stato un tempo in cui chiunque, anche mia nonna, metteva nel grembiule le erbe che le sarebbero servite per curare i suoi malanni, pure questi facenti parte del ciclo naturale della vita, ben sapendo comunque che “contro la forza della morte non c’è medicina negli orti” (“Cur moriatur homo, cui salvia crescit in horto? Contra vim mortis non est medicamen in hortis” è un avvertimento della Scuola Medica Salernitana).

Peccato che lei non conoscesse i loro nomi scientifici, e che io abbia dimenticato i loro bellissimi nomi contadini.


[1] Il libro è tradotto da Piero Cantalupo, con commento di Pina Boggi Cavsllo, nell’edizione di Palermo, La luna 1994.

Mia nonna e le erbe di Trotulaultima modifica: 2016-04-27T12:44:15+02:00da bibliosaura
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