Shi (Poesia): un film sulla parola poetica o un film sull’indifferenza?

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Ho appena visto  Shi (Poesia), del regista coreano Lee Chang-dong, Un film fatto di materiali minimi, popolato di personaggi marginali ridotti al loro minimo comun denominatore – l’umanità (nel senso, così ben descritto da John Donne, del loro essere parte della stessa condizione umana).

Il film racconta della ricerca della bellezza e della banalità del male. Della bellezza che nasce nonostante il male, anzi forse proprio dal male germoglia.

Nella prima scena c’è un fiume, e la corrente trascina il corpo senza vita di una ragazzina.

Poi c’è un’anziana donna, ancora bella, che cerca di scrivere una poesia. Cerca una fonte di ispirazione intorno a sé, tra gli alberi, nel canto degli uccelli, nelle nuvole, ma dalla matita escono parole senza forza, banali. Intanto intorno a lei un mondo sordido prende il sopravvento, la circonda e cerca di sopraffarla. La donna si muove come in un sogno tra la sua ricerca poetica e la necessità di risolvere un problema vitale. Ma è anche attanagliata dal dolore che questo problema le causa, dalla incapacità di parlare con l’unica persona a lei vicina, un adolescente coinvolto in un crimine.

Perché questa è l’altra faccia di Shi: accanto alla spasmodica ricerca della parola ” che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco /lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato” c’è la rivelazione di vivere in un mondo atrocemente indifferente al dolore, un mondo anestetizzato in cui  non esistono sentimenti come il rimorso, la vergogna, il rispetto,l’amore, In cui sembra essere caduto anche l’ultimo tabù, quello della preziosità di una vita umana.

La ragazza violentata e spinta al suicidio da un branco di minorenni diventa merce di scambio, oggetto di contrattazione. Ragazzi indifferenti a tutto guardano cartoni dopo aver partecipato a uno stupro di gruppo.I loro padri si preoccupano unicamente di pensare al “futuro dei ragazzi”, autori della violenza senza mostrare il minimo cenno di riprovazione per il gesto compiuto. . Mi-ja deve adattarsi con i suoi mezzi a questo imperativo sociale.

Tenerezza, rabbia e pena si avvicendano nella sua mente, minacciata dall’Alzheimer. E da questo groviglio di sentimenti nasce finalmente la poesia che cercava, le parole della pena per la ragazza morta sgorgano in una composizione dolente che si snoda sulle ultime scene del film e sulla sua finale disparizione. La sostituzione della sua immagine di anziana signora con quella dell’adolescente morta, della sua voce tremante con quella delicata della ragazzina fanno pensare a una totale immedesimazione con quel dolore, con quella perdita, che non può finire se non nella perdita di se stessa.

La rivelazione più conturbante del film è questa.  Mi-ja sembra essere l’unica persona a provare ancora sentimenti umani, seppur confusi. Condivide l’esperienza del dolore e ne resta imprigionata. Compie un’azione riprovevole, e ne resta segnata.  Gli altri continuano la loro vita senza scosse interiori, senza traumi.

Cosa vuol dire? Che la poesia è qualcosa di anacronistico, di fuori luogo nel mondo contemporaneo? un orpello ridicolo proveniente da altri tempi? Ma gli altri tempi non hanno vissuto anch’essi le stesse forme atroci di violenza,  le hanno narrate poeticamente?

Mi viene in mente l’Avventura di un poeta nella raccolta Gli amori difficili di Italo Calvino. Un poeta viaggia in un paradiso del sud insieme alla sua bellissima donna, in canotto costeggiano delle grotte, e lei ad un tratto si spoglia e si tuffa e la bellezza del suo corpo si fonde con la bellezza della natura circostante, del mare verde e azzurro, coi riflessi della luce nel buio delle grotte: un’immagine potente che il poeta non ha parole per descrivere, mentre ne trova a milioni quando, poco dopo, incontra i poveri e laceri pescatori, le loro facce scavate dal sole e dalla miseria.

Forse, se nel mondo non ci fosse il dolore, non ci sarebbero né la letteratura né la poesia. Non ce ne sarebbe bisogno. Forse la potenza della parola poetica non consiste nel raccontare  la bellezza – inenarrabile – ma nel trasformare, per una specie di processo alchemico o di sublimazione,  il male del mondo in materiale poetico.  Chissà.