Un treno per “Il paese delle nevi”. Riflessioni sul romanzo di Yasunari Kawabata

 

geisha2Campi deserti – la luce delle stelle – sui bucaneve.”

Potrò mai prenderlo questo treno e arrivare anch’io al pese delle nevi? Ho ritrovato il libro tra i mille di una vecchia biblioteca. Le pagine sono ingiallite, qua e là delle macchie più intense. Kawabata è uno scrittore della mia giovinezza, e allora ho cominciato a rileggerlo per vedere che effetto mi avrebbero fatto oggi le sue parole.
Ho ritrovato il gusto della neve crocchiante, il freddo che lo pervade dalla prima all’ultima pagina. Ma il  freddo dell’ambiente in cui si muove la storia – una stazione termale di una misteriosa regione di un Giappone forse ormai tramontato (sarà l’isola di Hokkaido?) – è riscaldato dai vapori delle acque sulfuree, dai colori che si stagliano netti contro il bianco, dal sole che illumina e incendia i paesaggi, dal calore del corpo di Komako, dalla percezione di un sentimento – strano come un fiore nato in mezzo alla neve – tra i due protagonisti.
La trama in sé è incredibilmente esile: un ricco giapponese si reca in vacanza da solo in montagna, alla stazione termale, e lì incontra una geisha (1) con la quale intreccia una relazione fatta di parole ed emozioni, lieve come un ricamo di ghiaccio. E, apparentemente, altrettanto fragile, sempre sul punto di spezzarsi. I due appartengono a due ben distinti gruppi sociali e sono ben consapevoli ciascuno del proprio ruolo e posto nel mondo.
Un treno collega, attraverso una lunga galleria, il paese delle nevi col resto del paese. E’ l’unico mezzo di comunicazione con il mondo che vive oltre le montagne piene di neve ed è anche il non-luogo attraverso il quale un’atmosfera fantastica, surreale, viene introdotta nel romanzo sin dalle pagine iniziali. Il protagonista è nello scompartimento quando viene catturato dalla voce di una bellissima ragazza, la spia attraverso il vetro del finestrino e ne vede l’occhio, là dentro riflesso, illuminarsi della luce della montagna. Una scena quasi cinematografica, quasi da film di Buñuel.
La ragazza si chiama Yoko ed è legata da una misteriosa relazione a Komako, la geisha da cui l’uomo, Shimamura, sta tornando. Il mistero della loro relazione non si scioglierà neanche nel drammatico finale del libro.
Komako è costretta a restare alla stazione termale per quattro anni, finiti i quali sarà libera dal suo contratto di geisha e potrà farsi una vita sua. Scrive un diario che ha iniziato il primissimo giorno della sua vita di geisha. Shimamura è un intellettuale: studia la danza occidentale solo attraverso i libri e le riviste che gli arrivano dall’Occidente. Kawabata sembra voler costruire nel romanzo continue contrapposizioni: tra l’estrema rigidità della stagione e il calore ctonio dell’acqua termale e del corpo di Komako, tra la freschezza linguistica e intellettuale di Komako e il silenzio di Shimamura. Tra i due si insinua, senza però riuscire davvero a incrinarne il legame, la fredda bellezza di Yoko, il suono della sua voce.
Lo scivolare lento della relazione fra Shimamura e Komaki verso un attaccamento che è amore viene segnalato dai rapidi cambi di umore di lei, percepiti al di sopra delle frasi e delle conversazioni, ma non è mai affermato, reso manifesto. La parola amore non viene mai pronunciata nel romanzo, tutte le parole sembrano trasformarsi in segni di ghiaccio non appena fuori dalle labbra.

Sicuramente una conoscenza più profonda della cultura giapponese toglierebbe molto del mistero a queste figure di donne, costrette a farsi geishe per sopravvivere, ma non toglierebbe il mistero che Kawabata ha voluto crescesse intorno al loro legame, e che soltanto lui avrebbe potuto sciogliere.

Ma la vera protagonista di questo romanzo mi sembra sia la natura gelida e selvaggia del paese, che rende tutto irreale, eterno e allo steso tempo angosciosamente provvisorio.

Nel corso di una lunga corsa nella neve Kawabata cita un haiku di Matsuo Basho. Credo si tratti di questo:
Mare in tempesta. Sopra l’isola di Sado la Via Lattea. E’ stato sorprendente, perché fin dall’inizio l’intero romanzo mi ha fatto pensare a un grande haiku.

 

Komako racconta di usare il suo diario per tenere nota dei libri che ha letto. Per Shimamura questo è “uno spreco di energie” così come “scalare una montagna”. Un pensiero cui neanche lui dà una vera forma. Resta lì, sospeso, a livello di sensazione. Perché, tra le infinite azioni umane, proprio queste due devono essere considerate inutili? A profitto di cosa bisognerebbe conservare queste energie?

Quando si parla di utile e inutile si entra nel campo della economia. E’ utile qualcosa che produce un profitto. Se scrivere non produce un profitto, è uno spreco di energia. Se quel che si scrive non risulta interessante, è uno spreco di energia.  Molto probabilmente, agli occhi di Shimamura, nell’economia della vita di Komaki questo esercizio di scrittura può apparire inutile in quanto non finalizzato a uno scopo preciso e non passibile di sviluppi futuri. Si scrive per farsi leggere e non per leggersi, non ha senso fare qualcosa che non avrà un riscontro nel futuro. E per lo scalare montagne?  Ha senso arrampicarsi fino a una cima, sentire il respiro farsi corto, le gambe doloranti, il sudore a fior di pelle?

E se fosse proprio in questo spreco, invece, l’origine del piacere? Fare qualcosa per il solo piacere di farla, perché la cosa in sé provoca piacere così come anche il bruciare le energie che il corpo accumula ogni giorno? Scrivere per se stessi, per rileggersi un giorno e scoprirsi così distanti da quel se stesso del passato, così diversi, eppure così stranamente gli stessi. Lasciare una traccia sulla carta o sul sentiero, o nell’aria, qualcosa a cui poter ritornare per potersi dire “io sono stato qui”. Lo posso dire, oggi, di questo libro: io ero già stata qui, riconosco il paesaggio.

(1) La parola geisha è composta da due kanji,芸 (gei) che significa “arte” e 者 (sha) che vuol dire “persona”; quindi i può tradurre il termine con “artista” o “persona d’arte” o, ancora meglio, “arte della persona”. Con la geisha essere donna diventa un’arte. La cura scrupolosa del corpo, gli abiti, il trucco accentuato si accompagnano a delle abilità artistiche quali la conversazione, il canto e la musica, coltivate a un livello abbastanza elevato, così che la donna possa svolgere il ruolo per il quale è preparata: tenere compagnia agli uomini su richiesta. Non si tratta dunque di prostitute, ma di accompagnatrici di professione, costrette a un arduo addestramento, e legate da contratti vincolanti con le case da tè e con le case delle geishe.

Un treno per “Il paese delle nevi”. Riflessioni sul romanzo di Yasunari Kawabataultima modifica: 2017-01-20T17:46:36+01:00da bibliosaura
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