rethoriké techné, l’arte della parola

ciceroneDa molto tempo mi domando il perché delle continue illusioni e disillusioni che caratterizzano la nostra vita di cittadini attivi e politicamente impegnati. Figure vecchie e nuove si affacciano alla scena politica, ci parlano, ci affabulano, ci convincono e poi, dopo il voto, puntualmente ci deludono. Anni  trascorsi a ragionare di politica, a esaltarsi, arrabbiarsi con pochi risultati concreti.

Una parte della risposta credo risieda nello strumento usato per fare politica, e cioè la retorica.

La retorica è l’arte di parlar bene, di costruire discorsi – dal greco rethoriké techné, tecnica del parlar bene – e di costruirli in modo tale da condurre l’uditorio alla persuasione.

L’arte è molto antica, e Aristotele è stato il primo – ma non l’ultimo – a individuarne le caratteristiche peculiari. Scopo della tecnica era (è) quello di insegnare – attraverso regole e tecniche normate dai numerosi trattati che si sono poi succeduti nel corso dei secoli – a costruire un discorso persuasivo, che faccia presa nelle menti e resti nel cuore degli ascoltatori.

Un’arte quasi da attori, dunque.

Il problema è che il discorso politico non è un discorso fine a se stesso, ma ha delle conseguenze profonde sulla realtà, sulla vita, sul futuro di tutti noi. Perciò mi chiedo come sia possibile affidarsi soltanto a delle parole – belle quanto si vuole – per decidere del destino di un paese, di un luogo, di un’amministrazione. E’ come fornire una certificazione, senza però la possibilità di verificarla. In politica ci fidiamo sulla parola, come nella pubblicità. Assistiamo a dei talk show in cui ognuno porta avanti la propria versione della storia, ma non c’è più nessuno che ci dica dove è la verità (non so se ci sia mai stato). Perché scopo della retorica non è l’affermazione della verità, ma semplicemente di un interesse particolare (così come lo scopo di un avvocato non è stabilire la verità in un processo ma far assolvere il proprio cliente).

Questo avviene perché la retorica è usata da pochi e subita da molti. Sin dall’antichità differenziava i potenti, che la utilizzavano, dai sudditi che la subivano, come chiarisce Roland Barthes in La retorica nell’antichità.

Perciò la capacità di decriptare un discorso costruito sulla base degli strumenti retorici potrebbe essere una buona arma da usare contro l’imbonimento politico-mediatico, per riconquistare, almeno in parte, la libertà: e questo si può fare apprendendo le tecniche utilizzate per la costruzione e il controllo del consenso. Imparando, appunto, la retorica, apprendendone la capacità di svelamento e di critica insite nella tecnica. Un po’ come l’omeopatia, che cura il simile con il simile. Se ci pensiamo, moltissimi grandi pensatori, da Aristotele a Cicerone a Giambattista Vico fino ad arrivare all’oggi (Roland Barthes, Perelman) hanno riconosciuto il valore e l’importanza di questa tecnica, se usata in maniera morale, per avvicinarsi alla verità o perlomeno per “separare il grano dal loglio”. Questo, se non ci garantisce completamente dagli imbonitori, ci evita almeno l’altalena delle illusioni e disillusioni. Solo attraverso il disinganno e il disincanto si giunge a livelli superiori di decifrazione della realtà.

Libro consigliato:

La retorica. Storia e teoria. L’arte della persuasione da Aristotele ai giorni nostri
di Renato Barilli

rethoriké techné, l’arte della parolaultima modifica: 2017-06-13T17:02:35+02:00da bibliosaura
Reposta per primo quest’articolo