Parole trovate tra le macerie dell’utopia. I fiori del male russi. Antologia di scrittori russi di fine secolo

 

fiori del maleQuesto è un vecchio articolo, ritrovato in una vecchia cartella del 2002. Ma si tratta di letteratura, e la letteratura è sempre attuale, soprattutto quando si  narra di una frattura, quando testimonia una cesura col passato che non si potrà mai più saldare. Questi racconti segnano il passaggio dalla letteratura sovietica a una letteratura ancora senza nome, che il curatore ha voluto chiamare “fiori del male” perché si tratta di ” una corrente sotterranea e inconsapevole, dominata dal potere del male, a contraddire il ruolo tradizionale dello scrittore russo, custode della morale e portatore di valori positivi”.

Nelle discariche del 20. secolo si trova una parola vecchia, molto vecchia, che non si osa più pronunciare  – una parola che ha attraversato la storia come un fiume carsico nel corso degli ultimi duecento anni – per finire tra i detriti del Novecento e delle sue ideologie.

La parola utopia, intesa come ciò che si oppone all’esistente, il grande respiro del progetto che investe il futuro, è stata incriminata, sottoposta a censura e infine cancellata dai dizionari del nuovo secolo. Al suo posto si sovrappone un’altra vecchia parola, mercato, cui si aggiunge un aggettivo, globale – ed ecco che il mondo si è trasformato in un grande spazio vociante in cui un unico linguaggio si impone a tutti gli altri, un unico diktat governa ed impera. Il capovolgimento che si è prodotto ha portato anche ad un capovolgimento di segni, per cui la vecchia accezione di utopia si è negativizzata mentre il liberalismo è stato elevato a paradigma di libertà, trasformandosi in una utopia non formulata ma sottintesa: «De fait, l’une des consequences de la chûte du communisme a eté l’elevation de la société liberale au rang d’utopie», dice  Kristian Kumar in Utopie et anti-utopie au XX siècle,in Utopie : la quête de la société idéale en Occident (Paris, Fayard, 2000. p. 263).

Si direbbe che nel  tempo in cui un’utopia ha voluto realizzarsi su terra – già questa in realtà è stata una contraddizione in termini – fallendo però i suoi obiettivi, il nemico a cui si opponeva ha avuto modo di crescere nel buio, di trasformarsi geneticamente in un organismo più forte e potente, capace di abbracciare il pianeta e di proporsi come l’unica forma di vita sociale veramente naturale, contrapponendosi all’innaturalità delle forme assunte dall’utopia. Ma questa forma apparentemente naturale – «che  procede alla cieca nei confronti di qualsiasi significato» –  si fa scudo di sistemi infinitamente complessi di schermi che ne nascondono la vera natura –  l’informazione, tanto globale quanto di parte, l’esportazione forzosa della democrazia, anch’essa planetaria (e qui sarebbe il caso di interrogarsi su quanta effettiva democrazia ci viene somministrata oggigiorno, ed a che angolo sia arrivata la forbice tra il demo ed il potere che decide nascondendosi dietro la volontà popolare), un’economia falsamente libera, individui falsamente liberi…

Individuo, minimo comun denominatore di tutti i grandi nomi collettivi massa, popolo, folla, moltitudine.

Quando i due termini di questo rapporto si toccano sprizzano scintille. Quando dalla visione vasta e rassicurante di una interpretazione globale del mondo si scende al livello delle individualità che insieme formano la moltitudine, allora solo, recuperando il secondo termine del rapporto, le parole che si levano dal basso ci danno la cifra, il senso dell’individuale “essere nel mondo”, in questo mondo. Infatti, cosa fanno gli individui, gli atomi che costituiscono la moltitudine? Hanno coscienza di questo nuova soggettività biopolitica che gli viene assegnata, oppure continuano a brancolare nella indecifrabilità del presente, telediretti dall’informazione che crea e distrugge nemici, pericoli, etc, senza neppure più chiedersi quale sia la verità delle cose?

Se è dalla letteratura che ci viene il senso individuale dell’essere nel mondo, in questo contesto complesso ed omniavvolgente le sue parole – intese nel senso barthesiano della solidarietà storica tra lo scrittore e la sua società –  hanno perso la loro capacità di far fronte, di opporsi, e sembrano destinate ad avviarsi verso il silenzio della società pacificata.

E’ quanto sembra avvenire agli autori raccolti in questa antologia.

Nelle discariche del 20. secolo, sui detriti delle vecchie utopie, nei terrains vagues delle nuove, hanno ripreso a crescere i «fiori del male». Non si tratta di parole nuove. Sono le parole – vecchie, usurate – con cui alcuni scrittori russi cercano di descrivere un mondo andato in frantumi. Cercano di raccontarlo pezzo per pezzo, nella frammentazione dell’esistente che non permette grandi voli e grandi progetti. Il presente degli individui che, appena usciti dalle rovine di un impero, sono stati ammessi  in un altro – e dunque ne sono ancora ai margini, fisicamente e politicamente – è un presente senza futuro; «la totalità del possibile» non è percepibile da questa postazione. Crollato il progetto degli scrittori staliniani di creare il testo unitario della letteratura sovietica (antico sogno dei sistemi totalitari l’esistenza di un unico linguaggio, di un unico libro che racconti un’unica storia e insegni un’unica dottrina – sogno che condividono con le religioni),  finita l’epoca degli eroici  protagonisti che si stagliano tra le masse, i nuovi narratori esprimono una sorta di disperazione del non esserci, di non essere nulla per la società che è organizzata al di sopra di loro, e che li travolge. Rispetto ai grandi eroi della letteratura dei loro padri essi si scoprono microbi, piccoli insetti invisibili ad occhio nudo sulla superficie del mondo: la solidarietà storica con l’uomo lascia il posto alla solitudine dell’individuo.

Questi fiori non emanano più profumo (neppure oscuro, o malefico) ma fetore. «Tutto emana fetore: la morte, il sesso, la vecchiaia, il cibo cattivo, il quotidiano.», dice Erofeev. Qui «la guerra del Bene contro il Male è finita da un pezzo, e con la vittoria definitiva di quest’ultimo. Ma la vita deve andare avanti lo stesso» (p. 17).

Non più ricerca della felicità ma abbandono al grado zero dell’esistenza. Un mondo deumanizzato dopo le grandi illusioni umanistiche del ‘900. E quali parole usare per esprimere questo livello? Se, come afferma Barthes, la storia è presente nel destino delle scritture, quale storia rappresentano queste scritture? Quali parole usano? Non certo la «parola-prostituta capace di soddisfare qualsiasi coscienza, da quella totalitaria a quella liberale» (p. 24). Le uniche possibili sembrano le parole morte trovate in vecchi manuali per l’apprendimento delle lingue, sintagmi elementari ed assurdi che solo di tanto in tanto si lacerano per lasciar passare qualche esile filamento di soggettività. E’ l’inadeguatezza delle parole a raccontare un mondo, e nello stesso tempo l’inconoscibilità di quel mondo. O un mondo spaesato dalla follia, dove si abitano visioni che si innestano l’una sull’altra, senza possibilità di uscita se non la morte. Questo senso di angosciante estraneità alla vita era già stato raccontato, negli anni ’70, da Aleksandr Zinov’ev, che sin dai suoi titoli più famosi – Cime abissali e Il radioso avvenire – mette sotto accusa la parola menzognera e stereotipa della propaganda politica. La forzatura del linguaggio politico/burocratico, che egli conduce fino alle estreme conseguenze nei suoi romanzi, mette a nudo la mancanza di logica e di senso del mondo nato dalla rivoluzione russa. Ma egli fa di più: crea Ibansk – la fottuta città – il non luogo dell’antiutopia, per raggiungere la quale non c’è bisogno di una cartina ma di superare il giudizio di una commissione di pensionati, a cui pagare anche sottobanco il permesso di entrata. Gli abitanti di Ibansk hanno perso ogni soggettività trasformandosi in etichette che possono ripetersi all’infinito. «L’individuo che credevamo ritrovato rimane annientato sotto il peso dei suoi simili, che non sono altro che lui stesso», dice Wladimir Berelovitch a proposito di Aleksandr Zinov’ev, in Storia della letteratura russa, Torino, Einaudi 1991. vol. 3 p. 855. Come in Sartre, l’inferno sono gli altri, ma gli altri in quanto specchio, o copia, di se stessi, cioè di quell’uomo che avrebbe dovuto essere nuovo ma non lo è stato, ed ha portato nella società nuova, nel «radioso avvenire» l’infezione della sua malattia originaria.

L’esperienza del negativo è talmente forte da creare un distacco irreparabile, una messa a morte della parola. Quella stessa che era stata capace di creare sogni, speranze ed attese; quella stessa che oggi teleracconta le gesta dell’impero e delle sue crociate. La sua colpa è forse stata questa. Di non aver mantenuto le promesse. Di essersi prestata a troppi.  Perciò viene privata della sua essenza di logos, viene, come dice Erofeev, inviata ai lavori forzati: ma da questa riduzione a zero essa tuttavia emana una forza terribile, nuova, capace ancora una volta di dire il mondo pur senza volere spiegarlo.

I fiori del male russi, antologia di scrittori russi contemporanei. Voland, 2001. a cura di V. Erofeev.

A leggere di seguito:

Tempo di seconda mano, di Svetlana Aleksejevic

 

 

 

Parole trovate tra le macerie dell’utopia. I fiori del male russi. Antologia di scrittori russi di fine secoloultima modifica: 2017-03-06T15:50:22+01:00da bibliosaura
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