Un incontro – racconto a due voci di Sabrina Maio e Maria Teresa Schiavino

La vide così, mentre era immerso nei suoi pensieri, nell’ingranaggio diabolico del lavoro e della carriera che nell’ultimo anno l’aveva macinato a rilento. E fu lo scampanio forte e prolungato della chiesa accanto a farlo voltare verso di lei. Era china a scrivere su un taccuino. Di lei vedeva solo il profilo gentile, le ciocche bionde ondulate che scendevano su un collo scarno. Era la sua dedizione nel calcare la penna sul foglio a colpirlo. Sembrava scrivesse le sue ultime volontà. La penna era tenuta voluttuosamente tra le dita sottili e premeva a solco mentre scriveva. La vide ad un tratto alzare il capo, stordita dalle campane e voltarsi di scatto verso il suo sguardo. Di rado riconosciamo le cose meravigliose che sopraggiungono nel misterioso progredire di vita, soprattutto le forze dirompenti di eventi apparentemente insignificanti che si prestano successivamente a lasciarci un segno indelebile. E lui lo capì. Lei lo guardò distrattamente e non colse l’intensità e la curiosità dello sguardo di lui. Era ancora presa da ciò che stava scrivendo. Lui non rimase tanto colpito dalla sua espressione, ma più dal vigore che metteva nella scrittura nel taccuino. Aveva degli occhi di un colore che tendeva a smacchiarsi nel verde, assumevano un contorno malinconico per la piega all’in giù nella parte estrema. Non avevano una luce particolare, anzi ricordavano i bagliori delle stanze interne viste dall’esterno di un’abitazione. Ed era come se tra gli occhi ci fosse un altro mondo, uno spazio indefinito che non aveva proprietà. La bocca, leggermente socchiusa per lo stupore dello scampanio prolungato, lasciava intravedere una dentatura irregolare e non candida. Aveva un viso piccolo con delle guance leggermente scavate che faceva pensare ad un nido che attende l’arrivo del passerotto madre. Il suo corpo era esile ed ossuto ma dotato di nervo.

Il suono delle campane le fece perdere il filo di ciò che stava scrivendo. Sollevò lo sguardo dal taccuino per guardare all’origine dei suono, e incontrò il muro giallo della chiesa risplendente contro il cielo azzurro smalto. Le venne in mente una canzone che amava molto, che ogni tanto le tornava alla mente in giornate come questa:
Une île
Claire comme un matin de Pâques
Offrant l’océane langueur
D’une sirene a chaque vague

Era il mattino di Pasqua? Lei non lo sapeva. Da tempo ogni giorno sedeva su quella panchina, col suo taccuino rosso, con le tasche piene di penne che a volta scoppiavano sporcandole giacche e vestiti. Inseguiva qualcosa nella propria mente e cercava disperatamente di catturarla sulla carta ma era così difficile… il mondo intorno – pure quel piccolo pezzo di mondo costituito dalla panchina, l’albero, il prato e la chiesa gialla – era così denso di vita da costringerla continuamente ad alzare gli occhi dalla pagina, a lasciar andare il filo afferrato a fatica tra le tante parole che le affollavano la mente. Questa volta le campane…. Ritornando con gli occhi verso il foglio incrociò lo sguardo di uno sconosciuto. Non vide null’altro di lui se non lo sguardo, acuto come uno spillo. Cercò di sostenerlo per qualche secondo ma era troppo insistente, quasi prepotente nel voler scendere dentro di lei. Si sentì invasa da quello sguardo come da un esercito nemico. Allora abbassò la testa sul quaderno e lo chiuse fuori.

Lui la vide sollevare lo sguardo perso verso di lui e colse il fastidio che le procurava il suo sguardo. Si sentì ladro. E lei non era preda facile a cui rubare i pensieri, lo si intuiva. Notò sul collo, di nuovo chino, un incavo dove per un attimo vide un pulsare, un movimento di un battito d’ali. Fu roba di un secondo ma gli procurò un bisogno urgente ed inspiegabile. Avrebbe voluto posare le labbra su quel nascondiglio, respirarci. Sentì un rimestio dentro, una voglia di essere padrone. Padrone di una sconosciuta, si. Le donne si avvicendavano nella sua vita. Era quasi sempre pronto a dare spazio. Le desiderava, le aveva. Era un uomo di successo, non era difficile. Ultimamente però vagava per una landa desolata con loro, accadeva qualcosa che le faceva allontanare ad un certo punto. Era come se percepissero il suo vuoto e fossero spaventate da quel precipizio che non aveva fondo. Lui non le tratteneva, anzi ne era come sollevato. Non aveva né tempo, né sogno che fossero tali con loro. Solo Marie, la sua cara Marie era arrivata vicina a lui, si era fatto accogliere nelle sue pieghe. La sua morbidezza era diventato il suo alibi per vari anni, poi il loro frutto perso, un’assenza che li aveva asciugati ed erano stati trascinati via da quell’errore. Dopo era stata la vita ad inghiottirlo, nella sua apparenza. Ma quella donna piccola, cosi tenace su quei fogli di carta, avevo suonato al campanello di quell’acqua cupa. L’avrebbe afferrata per quel volto resistente, l’avrebbe pretesa…non poteva lasciarla andare ora, no. Doveva parlarci, sentire il suono della sua anima a tutti i costi. Si avvicinò alla panchina.

Lei cercava di riprendere il filo delle parole allineate sul foglio. Il sole batteva sulla pagina e le faceva risplendere, nere come formiche in fila verso il formicaio. Ricominciò dall’inizio della pagina, lesse: ” I giorni della neve sono finiti, il sole illumina la facciata gialla di fronte a me e nel prato tra l’erba nascono narcisi a velocità portentosa. Ogni narciso una voce, uno sguardo… tutti voi che ho perduto ritornate, ogni primavera, in questo campo. Verrò sempre da voi, finché ci sarà la primavera, finché esisterà questo campo…” Mentre scriveva, un’ombra si stese sul foglio, rese grigie le parole, e lei pensò a una nuvola, alzò di nuovo lo sguardo e questa volta lo vide. Copriva completamente il suo spazio visivo. Il sole alle spalle lo rendeva una silhouette, un’ombra scura. Solo i capelli risplendevano intorno alla testa. “E’ un fantasma” pensò per una frazione di secondo, finché non lo ebbe messo completamente a fuoco. Era alto, molto alto; il suo volto era giovane ma non tanto, non più tanto, e sembrava sorriderle. Pensò: “perché mi copre il sole?” ma la sua vecchia buona educazione la fece restare interdetta, in attesa, il viso proteso verso lo sconosciuto, le mani chiuse sul taccuino a coprire le parole.

Non era agitato all’ idea di avvicinarsi. Era naturale farlo, come l’acqua che scorre di un fiume. Notò che lei si era soffermata sui fogli e rimuginava, persa come ad ascoltare voci lontane. Procedeva verso di lei, fissando quell’ incavo nel collo. Si fermò davanti le sue gambe. La copriva con la sua ombra, lei si accorse della sua presenza e si affretto a coprire le sue carte, come lo si fa con le proprie vergogne. La fissò e con voce bassa le disse: Lo sa che anche le foglie quando cadono fanno rumore?

-Cosa? Lei rispose alzando gli occhi. – Le foglie fanno rumore quando cadono? Ma che dice? Sempre le foglie fanno rumore, quando le sfiora il vento, quando si sfiorano l’una con l’altra, quando vengono calpestate sulla strada, o quando le bagna la pioggia… cosa vuole? perché mi parla delle foglie? Non vede che mi sta coprendo il sole? Che impedisce di scrivere? e mi copre il muro giallo di fronte?

Non voleva disturbarla, non era abituato ad essere invadente con le persone. Non sapeva in realtà cosa lo avesse spinto a farlo e la reazione ostile di lei lo spiazzò. Non tanto però dal farlo andare via. Lei parlava del giallo del muro di fronte, ma non era quello a dare luce ai suoi occhi verdi, e ne era abbagliato. Notò la smorfia sottile che aveva preso la sua bocca, tra il riprovato ed il divertito, e ciò gli diede coraggio. Le si sedette accanto e con premura guardò rassicurante i fogli su cui aveva scritto lei, come un padre che controlla i compitini fatti dalla figlia e le chiese se anche allora le parole scritte da lei facessero rumore.
Lei lo guardò negli occhi e lo vide davvero per la prima volta. Sembrava uno come lei, uno proveniente dal suo stesso mondo. Le parve addirittura di conoscerlo, e di averci già parlato in un altro luogo, in un altro tempo. Aveva qualcosa di rassicurante, forse quel bianco di cui era vestito le ricordava qualcosa, ma non sapeva bene cosa. Il filo del pensiero era definitivamente spezzato, almeno per il momento, dunque tanto valeva parlargli.
– Si, rispose. Un rumore assordante, come una cascata sulle rocce.

E lui la sentì la cascata sulle rocce, fu travolto dalla freschezza e dalla violenza dell’acqua che precipita. Aveva necessità di precipitare anch’egli con tutto il peso della sua gravità. Seduto accanto a lei ne percepiva tutto il vigore. Lo conteneva in quel corpo minuto e l’aveva visto diluire nella pressione della penna sui fogli. La sentiva ed era come un ragazzino turbolento. Aveva pronunciato poche parole, con un tono leggermente roco come se attingesse da una stanchezza remota, ma percepiva la sua interiorità forte come di chi ha ancora molto da salvare. Allungò il braccio sulla panchina ma evitando di avvicinarsi troppo a lei con la mano. Era dai tempi di Marie che non aveva questa urgenza di entrare in una donna. L’aveva solo vista e ne era soggiogato, e temette di esserne ferito. Avrebbe scolpito dentro di lui come sui fogli? Se non avesse data quella risposta. Che ne sapeva lei della cascata sulle rocce? Avrebbe saputo farlo deflagrare e per questo non sentiva di avvicinarsi troppo a lei.
E mentre un filo sottile le spostava le ciocche sul viso, guardando in quegli occhi di vetro assottigliato sulla spiaggia, sorridendo le chiese se avrebbe potuto mai camminare accanto a lui, condividere ed allungare la sua ombra in un qualsiasi giorno assolato come quello.

Lei non capiva fino in fondo quel che lui andava dicendo, ma le piaceva ascoltare il suono della voce, le parole, le pause di silenzio fra una parola e l’altra. Il sole le riscaldava le spalle avvolgendola come un abbraccio. Si lasciò andare contro lo schienale e sentì qualcosa, il braccio di lui, forse, dietro la nuca. Si spostò allora in avanti, di nuovo, perché non amava il contatto diretto, poi però ritornò verso lo schienale, una due volte. Era strano. Anche la voce e le parole di quello sconosciuto le ricordavano una sua vita precedente, un luogo che malamente si sforzava di farsi ritornare alla mente scrivendo sul taccuino che adesso giaceva abbandonato sulle sue ginocchia. Un mondo popolato di figure bianche e di voci basse, sussurranti, ma a volte di urla.
Le avrebbe mai ricordate? Forse quest’uomo poteva aiutarla a ricordare.

La vide assorta, ritrarsi prima, quasi irritata, poi chiuse per un solo attimo gli occhi e la vide abbandonarsi allo schienale come in cerca di risposte. Non l’aveva udito sicuramente. Non ci badò ed allora come per istinto scattò in piedi e porgendole una mano la invitò ad alzarsi. Lentamente iniziarono a camminare lungo il sentiero acciottolato del parco, uno accanto all’altro, come se fosse la cosa più naturale al mondo. Era bello misurare il suo corpo con quello minuto di lei ma presente. Ricordò di aver letto una volta che il primo atto d’amore tra un uomo ed una donna si avvera quando iniziano a camminare insieme: scegliere la lunghezza del passo, fermarsi, arretrare, attendere che l’altro ci raggiunga. Era vero, era attenzione. Avvertì che lei procedeva rassicurata accanto a lui e che non si lasciava influenzare dal suo passo lungo. Aveva un modo di incedere sinuoso anche se a volte insicuro. Per un primo tratto camminarono in silenzio, vicini. Guardavano gli alberi, le loro ombre. Ogni tanto si imbattevano in qualche mamma che passeggiava con il proprio bimbo. Si sentiva non molto lontano il fiume che scorreva, aveva piovuto molto nei giorni passati ed era carico di energia nella sua portata. Poi fu in un punto meno coperto dalle ombre degli alberi, sotto un raggio spia di sole che li trafiggeva, che lui si fermò di scatto e si voltò verso di lei.

Lei ebbe un momento di paura e si ritrasse. Troppo vicino lui, troppo incombente. Arretrò di un passo e lo guardò a lungo, cercando di riconoscerlo. I suoi occhi percorsero i tratti del volto, i capelli, le piccole rughe ai lati delle labbra. Chi era mai quest’uomo che ormai da un quarto d’ora era entrato nel cerchio della sua piccola vita? Distolse lo sguardo e si concentrò sul rumore del fiume, distante ma ben percepibile tra gli alberi del parco. Avrebbe voluto raggiungerlo ma lui era lì tra lei e il fiume, come una barriera. Cosa doveva dirgli? da tempo aveva interrotto le relazioni con altri del genere umano, non c’era nessuno nella sua vita se non nei ricordi, nel quaderno che andava riempiendo. Non sapeva quali parole usare.
– chi sei, cosa vuoi? Gli chiese a bruciapelo.

– Sono semplicemente un uomo, un uomo che sogna soltanto la libertà del niente da perdere. – E cosa voglio? Voglio solo te, l’ho capito in pochi minuti. Voglio che tu incida nella mia vita, persa, come i solchi che fai sul foglio.

Lei lo guardò perplessa. Non capiva fino in fondo il senso delle sue parole. Restò a fissarlo per qualche istante, negli occhi uno stupore sincero, profondo. Quello stupore aveva toccato qualcosa dentro di lei, aveva aperto una porta da cui una risata cominciò a sgorgare, una risata fresca come il suono della cascata, che sembrò spazzare via, per il momento, la distanza di prima. Rideva e rideva, senza riuscire a fermarsi, tenendosi una mano sul petto. Il quaderno le cadde per terra e i fogli si sparsero sull’erba.
Quando la risata si fu calmata, gli chiese: – Che cos’è la libertà del niente da perdere? Mi potresti spiegare? Se mi vuoi come dici, e io dovrei darmi a te, come credo di capire, anche se non so in che modo né se ne avrò mai desiderio, forse dovresti provare a farti conoscere…. Non sono abituata a prendere caramelle dagli sconosciuti.
Poi si chinò a raccogliere i fogli, che intanto si erano bagnati di rugiada.

E lui capì, nel vederla china a prendere i fogli ed a cercare di asciugarli, che non doveva, non doveva osare. Aveva bruciato e distrutto tutto finora, la sua anima era persa, ma forse no, non tutto era perduto. Per una volta fermarsi, non prendere e derubare l’altro avrebbe potuto salvarlo. Appena lei si rialzò, le prese il viso tra le mani, vide nel profondo un desiderio vivo di liberarsi, ma non da lui, un bisogno di ancorarsi e ne ebbe una profonda tenerezza. Quella piccola donna minuta, forse anche coraggiosa, gli diede la forza di svoltare. Vide le pagliuzze dorate in quei disarmanti occhi verdi, la bocca semiaperta stupita. Mentre le accarezzava col pollice la linea dagli occhi alla guancia capì che era la donna più importante della sua vita. Si girò e proseguì lungo il viale tra le ombre degli alberi ed i piccoli spazi assolati.

Lei lo seguì con lo sguardo fino a che non fu scomparso tra la vegetazione. Cosa aveva voluto dirle? Le aveva parlato con le parole e con gli occhi, coi gesti, ma lei non aveva capito fino in fondo che cosa lui volesse, cosa si aspettasse da lei. Si passò le dita sul viso, dove poco prima lui l’aveva sfiorata, e sentì qualcosa, come l’eco di una sensazione dimenticata, di un sentimento perduto. Ripeté il gesto diverse volte, quasi a scavare la memoria, a portarla alla luce. Poi si voltò e ritornò alla sua panchina.

Un incontro – racconto a due voci di Sabrina Maio e Maria Teresa Schiavinoultima modifica: 2018-05-25T14:12:42+02:00da bibliosaura
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