Un’altra Euridice

Mi ha sempre affascinato la storia di Orfeo ed Euridice. Un uomo che riesce ad avventurarsi nel regno dei morti per riportare alla vita la compagna amata e perduta per sempre ci dà il segno della grandezza dell’amore e dell’immensità della perdita di una persona cara. Ma il fatto che l’impresa fallisca per l’ansia di Orfeo di voltarsi a guardare l’amata ha gettato un dubbio in qualcuno, che ci ha visto un autosabotaggio, una volontà inconscia di preferire la poesia alla vita, lo struggente dolore alla presenza materiale dell’amore (questo lo insinua Gesualdo Bufalino, e spiegherebbe anche la bellezza dei Sonetti a Orfeo di Rilke).
Anche io ho voluto dare una mia interpretazione del mito, ma dalla parte di Euridice. Ho immaginato questa fanciulla abbandonata sulla riva, in attesa di un amore che dovrebbe salvarla ma non arriva.

L’ultimo sogno di Euridice
Racconto in immagini di Maria Teresa Schiavino

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Euridice nel buio guarda le rive sfilare. Ultima all’imbarco, e seduta a poppa, osserva l’acqua scura e immota, quasi senza suono, scorrere sotto la carena. Non riesce a credere che l’impresa sia fallita prima ancora di iniziare. Orfeo non è giunto all’incontro e lei è obbligata a partire. Pensava davvero di poter sfuggire al mistero di Ananke? Ma lui, Orfeo, perché l’aveva seguita fin lì, sfidando i divieti e suonando per Hades, promettendole vita per poi non farsi trovare? Questi pensieri la tormentano, insieme a un altro, angoscioso, di doversene andare in quel luogo sperduto, dove è notte, per sempre. Il pensiero “per sempre “ la angustia. Una eternità di buio e silenzio. Senza Orfeo a riscaldarle i piedi, a cantare per lei per farla sognare. Perché non è venuto? La domanda le brucia nel cuore. Nessuno fa caso a lei. Gli altri viaggiatori le voltano le spalle. Sporge le gambe e si lascia cadere nei flutti. Non fa alcun rumore. La barca continua la sua traversata, lei si tiene sotto il pelo dell’acqua finché non la vede sparire nella nebbia scura.

Allora con poche bracciate raggiunge la riva e si accascia.
Il cielo sopra di lei è tempestato di stelle. Lucenti e lontane. La notte è un velluto. Forse è estate, pensa, sentendo che il suo corpo bagnato non rabbrividisce. Cerca un rifugio per passare la notte.
Una barca capovolta le offre un riparo. . Si stende su un mucchio di reti e si addormenta, stremata.
Si risveglia nell’alba livida di una stagione ignota. Il sole è ancora basso sotto la linea della pianura, le nuvole basse e viola – incerte tra la notte e il giorno.
Dove andrò? Dove andrò a cercarlo? Si chiede Euridice alzandosi e scuotendo dalla veste bianca le alghe rimaste impigliate.
Nel vento del mattino un flebile suono di cetra, lontano.
Si dirige verso quel suono sperando che non si spenga.

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Corre corre corre Euridice verso il suono, e intorno a lei spariscono gli alberi e i cespugli lungo la strada, diventando un’unica striscia oscura. I capelli le danzano intorno al viso la veste bianca si impiglia nei rovi, si lacera. Le prime case.
Il cuore le scoppia nel petto – ha ancora un cuore, un petto, un respiro? – si ferma a riprendere fiato, il suono si spegne.
Nella prima luce dell’alba, le luci di un’osteria ancora accese.
Si avvicina, qualcuno esce e spegne la lampada, si chiude le porte alle spalle.
– Aspettate, fermatevi. Chi è che suonava poco fa?
– Un vagabondo, uno straniero. Ha trascorso la notte qui, ha bevuto e mangiato, e in cambio ha suonato per noi. Una musica straziante, ma a molti piaceva. Ha fatto sgorgare lacrime, ci ha ripulito le anime sozze.
– Ma tornerà la prossima notte?
– Fanciulla, che dirti? Non so… l’ho visto dirigersi a ovest, barcollante, con la sua cetra sulle spalle. Aspetta, dove fuggi?
E lei riprende la sua corsa affannosa, verso occidente, ma presto è costretta a fermarsi. Tre strade ci sono, e lei non sa più dove andare.
– Figlia, dove vai, perché corri?
Una donna dai capelli bianchi si affaccia a una porta, la invita ad entrare.
– Entra, lavati, resta.
– Non posso madre, devo cercare Orfeo… lo hai visto passare?
– Orfeo?
– Un giovane uomo con una cetra….
– Si, forse si… mi ha chiesto la strada per una locanda dove andare a dormire, per riprendersi dalla sua notte insonne.
– – e tu dove lo hai mandato?
– Alla locanda della Cerva Bianca, che è poco lontana.
– Allora vado.
– Non vuoi fermarti un istante?
– Forse si, madre mia, ho sete ed ho fame. Ma solo un momento….
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Ed Euridice entrò nella casa. Un fuoco ardeva con sopra una pentola d’acqua già calda, ed il pane ed i fichi in un piatto, con latte di capra rappreso. E una melagrana.
La donna le disse: dammi la veste che indossi, la lavo, pulisci il tuo corpo dall’impurità della notte passata, e poi nutri il tuo corpo. Orfeo sta dormendo, non lascerà il letto finché sarà alto il sole nel cielo.
E così fece. L’acqua scorreva a ruscelli sulla sua pelle bianca incrostata di fango, e il corpo si sentì confortato. La donna la avvolse in un bianco lenzuolo, pettinò i suoi capelli.
Qualcosa si mosse nei suoi ricordi recenti. Un lenzuolo, una donna che le pettinava i capelli…
– Madre! Oh, madre!
– ….
– Ridammi la veste, ti prego.
– È stesa al sole, lascia che il vento la asciughi…
– Soltanto il tempo che gusti i tuoi frutti, poi vado.
Ma, senza saperne il motivo, non toccò neanche un chicco della melagrana.
– La tua veste è strappata, permetti di offrirtene un’altra. È della mia giovinezza, ma più non la indosso da tempi lontani.
E da una cassa estrasse una veste di lino sottile, bianca come l’alba, leggera come una nuvola in transito.
– Oh madre, che bella la veste, perché vuoi privartene?
– Prendila, figlia, la mia cassapanca è piena di tuniche bianche.
– Grazie, madre. Tornerò a restituirtela, un giorno. – Prendi anche la melagrana…
Ma lei è già fuori, nel sole calante. Si chiede come sia possibile, le sembra di essere rimasta così poco a casa della vecchia signora.
L’osteria della Cerva bianca è lì, sulla strada, e una musica dolce proviene dalla sua porta chiusa. Euridice si precipitò ma uno sterpo le prese la veste e la trattenne. Non voleva strappare la bella tunica bianca di lino, dono della vecchia, così si inginocchiò per sciogliere dolcemente i fili dal ramo. Mentre era così inginocchiata non si avvide che la musica lentamente cessava e un’ombra furtiva usciva dalla locanda strisciando sul muro fino a sparire. Finalmente la veste fu sciolta, e lei entrò nella stanza avvolta dalle ombre. Si guardò attorno ma Orfeo non c’era, e neppure la lira. Soltanto un suono ancora vibrava nell’aria.
– Chi cerchi, ragazza?
Sempre la stessa domanda sempre la stessa risposta… – Cerco Orfeo, l’ho sentito suonare, dove è?
– Orfeo? Il giovane con la cetra?
– Si, proprio lui, padre, dov’è?
– Era qui poco fa, l’ho visto parlare con quell’uomo laggiù, al tavolo accanto alla porta. Ma tu chi sei?
Ma Euridice è già là, al tavolo, e parla con l’uomo.
– Era seduto con te… di cosa avete parlato? Sai dirmi dove è diretto?
– Di chi parli, ragazza?
– Di Orfeo, il giovane suonatore di cetra. Era qui con te, mi hanno detto.
– Si, era qui, gli ho offerto del vino dolce di Sirti e lui ha cantato e suonato per me… parlava di una donna che è morta, che avrebbe voluto salvare, una donna giovane e bella morsa da un serpe … cantava e piangeva. E anche io piangevo pensando alla vita perduta, ma era dolce, quel pianto, più dolce del vino, più dolce dello stesso amore…
– Sono io, sono Euridice, la donna del canto, ma perché si allontana ? Lo inseguo da giorni per dirgli che io sono salva. Puoi dirmi dove è diretto?
L’uomo sbianca e allontana di colpo la sedia, si alza, quasi impaurito, la guarda.
– Sei tu? Per gli dei, non può essere vero… È andato a occidente, dove il sole si desta, ma non so dirti altro. Euridice… La morta Euridice che vaga…
E tutti si alzano, il viso sbiancato, e alcuni bicchieri si infrangono al suolo.
Euridice si leva, la veste bianca sporcata dal vino.
Fuori la sera sta lentamente calando. Lei va verso il sole e continua a cercare il suo amore. Ma presto la notte avvolge la strada e le cose in un nero mantello e non c’è luna a fare chiaro il cammino. Euridice si accascia ai piedi di un vecchio ciliegio. E l’albero china i suoi rami, le foglie lucenti, si china e la copre per farla dormire.
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Al mattino, col sole, il ciliegio è fiorito. Euridice vestita di fiori si chiede come sia potuto avvenire che un vecchio ciliegio fiorisca in estate.
Ma adesso bisogna partire. Orfeo che cammina nel buio sarà ormai distante e bisogna trovarlo.
Euridice si rimette in cammino, la strada è deserta e la meta lontana.
Cammina tra campi di grano falciato, distese giallastre abitate da corvi. Il silenzio è totale. Solo, ogni tanto, i gridi delle calandre intorno ai nidi nascosti tra stoppie.
Cammina cammina come in una favola ascoltata bambina. La sua ombra dapprima
lunghissima si accuccia sotto i suoi piedi, e poi riprende pian piano ad allungarsi alle spalle.
Sente la pelle scurirsi sotto il sole implacabile.

Al tramonto intravede un fiume, un fiume che ha già conosciuto, le sembra. Un suono struggente di lira si alza dalle canne palustri che fanno cortina. Si affretta, ansante, e la barca è lì che la aspetta, e Orfeo non la guarda, ma suona, piangendo, sull’altra sponda del fiume. Nell’ultimo raggio di sole Euridice comprende. Non era un inganno. Orfeo non l’ha abbandonata. Non è giunto sin lì per riprenderla, non è per gli umani ingannare la Morte. Ma l’ha accompagnata, col canto e la lira, fino a quel luogo di addii, dove non era tenuto ad andare. Euridice comprende il suo sogno, e con sollievo si lascia portare.

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Salerno aprile 2020

Un’altra Euridiceultima modifica: 2020-05-18T12:39:21+02:00da bibliosaura
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