Jemaa-el-fna, ombelico di Marrakesh

Non sapevo che il nome Jemaa –el-Fna significasse “Assemblea dei morti” o “piazza del niente”. Di solito preferisco che i luoghi mi si riversino incontro, senza nome e senza storia. Perciò leggo le guide solo al ritorno, per rifare passo passo i cammini, nel ricordo. Così, soltanto dopo ho potuto dare un nome alle inquietudini che emanavano dalla piazza ogni volta che la forza di una corrente sotterranea mi ha trascinata alle sue rive.

Sono le 10 del mattino. Io l’avrei chiamata Onfalos. Ombelico. L’ombelico di Marrakesh, convergenza e nera sutura di strade e di storie – le ampie strade che arrivano da fuori le mura, dalla città moderna e le strette stradine che dal buio della medina e del souk riversano uomini e donne in caftano e djellaba nel calore abbacinante della piazza – come un parto – e l’odore della spianata, vuota a mezzogiorno non fosse per qualche raro incantatore di serpenti stordito insieme alla sua bestia dal calore, perso ai bordi della piazza sotto un ombrello da spiaggia, un incantatore che si lascia fotografare per soli 10 dirham – un odore di catrame che si liquefa, perché la piazza non è che una liquida spianata nera d’asfalto dove i piedi affondano e sono inghiottiti e deglutiti nel sottosuolo di Marrakesh, deserto sabbia fuoco il versante oscuro popolato dei morti riuniti in assemblea, la piazza del niente che nessuno osa attraversare a mezzogiorno come con attenzione si passa il dito intorno ad un ombelico per ancestrale paura che si apra il nodo che separa la morte e la vita – si cammina lungo i bordi di questo immenso lago nero respirando il disgustoso odore che sale dalla terra, ad oriente il brulicare colorato dei souk, ad occidente un corso europeo di edifici moderni, cybercafé…
Alle 12 ci allontaniamo dalla piazza torrida entrando ed uscendo dalle strette vie, penetrando negli strati più profondi del tessuto di Marrakesh, oltre il souk, oltre la Medersa ben Ioussef silenziosa e fresca di fontane, sempre più in là dove i vicoli non hanno più aperture né nomi, dove murate rosso deserto proteggono l’anima della città, quell’anima che resta inafferrabile nella confusione del souk, nel vociare delle contrattazioni, e che ora ci sbeffeggia nascondendosi dietro i muri insormontabili…Non sapremo mai cosa si si nasconda di odori, colori, voci dentro le case ben protette, come dietro i veli che celano il viso delle donne. Troviamo una casa aperta, vi entriamo – appartiene ad un europeo che la fa visitare a pagamento. All’interno i colori del deserto – tappeti, coperte, utensili della vita dei nomadi. Da tempo i tappeti color ruggine non ospitano più sogni e corpi addormentati, né il fuoco si accende più sotto la tajine. Gli abitanti della casa hanno arretrato la loro presenza dietro altre mura, altri cortili. Qui ci sono i giochi di ombra e luce che il sole gioca coi vetri alle finestre, ed il silenzio, un silenzio inaspettato e fresco che esclude la sovrapposizione di calore, luce, gridi, la preghiera del muezzin, le voci della città che Anto ha cercato di catturare, di nascosto, col suo registratore portatile. Quali suoni usciranno dal nastro una volta a casa, quando Marrakesh sarà soltanto un sogno sognato un aprile lontano? Siamo condannate al nostro destino di turiste, sole nel cuore della casa disabitata, della medina, del souk, del palmeto e del deserto Houssauira che già assedia le mura rosse, ammonticchiato ai piedi delle grosse pietre, il deserto imprigionato nei neri sacchetti di plastica provenienti da un’altra civiltà, che svolazzano come corvi malefici nel tramonto polveroso di Marrakesh.
Camminiamo un giorno intero tra ombra e luce, rumore e silenzio, affamate e sazie a un tempo, non osando allungare la mano ai cibi esposti all’aria, al calore, alle mosche. Sempre i passi ci riportano a Jemaa-el-Fna.
La piazza Jemaa-el-Fna si trasforma secondo le ore.
Alle 17, quando il calore è diventato tutt’uno con il corpo, e l’odore dell’asfalto è un mantello torrido metà della piazza è coperta dall’ombra, ed è nella zona d’ombra che si raccolgono, come su un palcoscenico, i personaggi leggendari che risalgono dal profondo del tempo sempre uguali: l’incantatore di serpenti, il guaritore con i suoi rimedi – code di scorpione, pelle di camaleonte, serpenti essiccati – il cavadenti ambulante, le disegnatrici di hennè, i narratori di storie, i giocatori di carte, piccole isole colorate sull’asfalto nero della piazza. Intorno ad ognuna, grumi di umanità, un vociare confuso che si scioglie nel calore proveniente dal basso. Non sono attrattive per turisti. Nessun turista potrà godere dei racconti che tengono col fiato sospeso uomini e donne e bambini senza prima imparare la lingua aspra del contastorie del deserto. Dunque, è per gli abitanti di Marrakesh il vero racconto, per noi soltanto lo spettacolo del racconto.
Alle 19 il sole che affonda nel deserto allunga le ombre dei caftani, le sfilaccia sulle strade sconnesse che portano a Jemaa-el-Fna. Un fiume di gente a piedi, in bicicletta, in auto, in moto muove nella stessa direzione, nella luce annebbiata dal fumo degli scarichi e dalla polvere rossa – il popolo di Marrakesh abbandona le invisibili dimore e si avvicina, accerchiando la piazza per un evento cui non si può mancare.
Il tramonto cade su Jemaa-el- Fna.
L’ombra si allunga e copre il brulichio della piazza, e come tra un atto e l’altro nel buio appena calato questi personaggi abbandonano la scena portandosi dietro i loro strumenti ed il loro pubblico multicolore. La pausa di un istante, e d’improvviso il buio fitto della notte araba appena calata è lacerato dalla luce di lampade a gas accese ai bordi della spianata, e sulla scena irrompono i ristoratori ambulanti con le loro fumose cucine da campo, le panche ed i tavoli, e l’aria si riempie di fragore di stoviglie e sfrigolii di fritture, di un’umanità affamata avvolta dalle nuvole dense del fumo che sale a spirale dalle cucine verso il cielo opaco di stelle.
Ore 22. Nell’onfalos si addensa più profonda e nera l’oscurità. E da questa notte catramosa, torrida, dal centro di Jemaa-el-Fna cominciano a levarsi sordi e inquietanti colpi di tamburo, i battiti cupi del cuore di Marrakesh, battito prenatale che ci attrae e ci trascina riluttanti al suo centro e nello stesso tempo ci respinge per l’orrore del buio, dell’umanità straniera stretta intorno ai battitori, dove siamo noi le vere straniere escluse dalla comprensione della lingua che ci respinge con flusso inarrestabile, escluse dal significato del suono del tamburo che, adesso lo so, chiama a raccolta dalla profondità del deserto sotto l’asfalto di Jemaa-el-Fna l’assemblea dei morti nella piazza del niente.
L’universo maschile aggrumato intorno ai tavolini del gioco delle tre carte è inquietante. Il buio nasconde i volti, li rende impenetrabili più che mai. Non si può comprendere ciò che non si conosce.
Lentamente ci allontaniamo da questo grumo oscuro, ritorniamo ai margini, alla luce delle lampade a gas, alle famiglie aggrappolate sui paracarri, e poi sempre più fuori, alla modernità degli Internet cafè da cui con 10 dirham, lo stesso prezzo della foto con l’incantatore di serpenti, si può mandare un messaggio e rientrare nella rete del sempre, lontano dalla piazza, dai suoi lugubri tamburi che ci seguono ancora, ovattati e lontani.

Maria Teresa Schiavino

Viaggio in Marocco Casablanca – Fes – Marrakesh, aprile 2001, percorrendo in auto la strada che corre lungo le pendici dell’Atlante.

Jemaa-el-fna, ombelico di Marrakeshultima modifica: 2014-04-11T10:02:47+02:00da bibliosaura
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