Addio, Gabriel Garcia Marquez

Qualche mese fa lessi, da qualche parte non ricordo dove, la notizia che Gabriel Garcia Marquez era ammalato di una forma di demenza, e che vagava nella metropolitana di Parigi. Prima ancora di pensare che potesse trattarsi di un fake – come in realtà era – pensai di correre a Parigi, andarlo a cercare, portarlo a casa mia e prendermene cura. Non mi era mai successo di provare per uno sconosciuto un sentimento di tenerezza così grande. Perché in realtà Marquez per me non è uno sconosciuto. I suoi libri mi hanno accompagnato per tutta l’adolescenza e anche dopo. Soprattutto uno – Cent’anni di solitudine – mi ha rivelato campi vastissimi della scrittura. Mi ha tenuto compagnia come mi tenevano compagnia i racconti di mia nonna la sera accanto al fuoco, con l’incantamento di un passato contadino mitologico, con i mille personaggi di cui è difficile ricordare i nomi ma non le storie, ognuno unico, solo di fronte al  proprio destino pur in mezzo a una moltitudine.  Macondo è il paese che tutti avremmo voluto realizzare, in cui ancora oggi io vorrei vivere. Un paese costruito con la forza di volontà e contro ogni speranza, dove tutte le case hanno la stessa quantità di sole. Dove le parole rivelano la loro magia nel costruire mondi, e anche nel cancellarli, quando tutti smarriscono la memoria dei nomi delle cose e sono costretti a scriverli su pezzi di carta e attaccarli agli oggetti,  per non perderli del tutto. Marquez mi ha rivelato, con questo solo libro, la potenza dell’infanzia come luogo in cui le storie prendono vita, sedimentano, si trasformano in mito. E mi ha regalato l’idea che la storia personale di ognuno sia profonda e insondabile, diversa a ogni racconto, ma tanto più necessaria da raccontare. Per ringraziarlo di questo avrei voluto prendermi cura di lui,  quando credevo che la sua mente si fosse smarrita nei sotterranei della metropolitana di Parigi.

Addio, Gabriel Garcia Marquezultima modifica: 2014-04-18T14:18:48+02:00da bibliosaura
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