Agli uomini che costruirono la storia
Vengono erette statue,
spesso equestri.
Nel centro di giardini, alla confluenza
di sentieri e aiuole,
stanno tutte sole
a lanciare nel vento un monito
in una lingua antica
che nessuno più intende, né si chiede
perché indossino abiti così fuori del tempo.
Fanno parte del paesaggio.
A volte spaventano bambini, altre volte diventano
Protagonisti di storie fantasiose.
La loro sagoma saggia e pensosa
È come una lancetta ferma su un quadrante spaccato.
Sulla storia dell’uomo
Venti e stagioni trascorrono, e cancellano
Le auliche lodi impresse nella pietra.
Solo gli archivisti conoscono
La segnatura precisa
Di una vecchia delibera
Che ne racchiude il segreto.
Ma per il mondo dei piccioni
E degli uccelli in genere,
proprietari veri dei giardini, inquilini
degli alberi, le loro teste restano
punto di riferimento preciso, alto sul piedistallo,
un luogo di appuntamento
segnato dalle strisce
verdi dei loro escrementi.
E forse questo è un destino
Auspicabile, per le statue,
ferma-data, memoria smarrita
di un passato imperfetto
denso di divenire.
Entrare nel paesaggio, integrarsi
Per sempre.
Perché altrove, in altri luoghi, sovente
Vengono tirate giù con rabbia e scherno
Dalla rabbia del presente:
neanche degni
di farsi dimenticare,
di trasformarsi in colombaie,
i loro originali.
Dove la storia è stata
cruenta, e la terra fa nascere
alberi rossi, tanto il sangue
ha intriso i marciapiedi,
il nuovo non vuole più nulla
che ricordi il mondo di ieri.
Allora ciò vuol dire
Che le statue dei nostri giardini
Hanno compiuto gentilmente il compito
Avuto in pegno dal destino?
Vuol dire che li lasciamo lì
A godere del sole e del vento
E delle grida dei bambini,
a farsi torri di avvistamento
per gabbiani irrequieti
Perché non furono ingiusti
E la storia stessa li rispetta?
L’oblio è dunque il migliore dei souvenir,
e la memoria che non si cancella
è quella del dolore e della pena,
del sangue versato dei propri fratelli.